Attraverso

Attraverso

Dimmi, amico Gino, da che cosa dobbiamo difenderci? Perché, se in tante tue foto la nitidezza dell’immagine ci è preclusa da nebbie, vapori o fumi, oppure un velo (di plastica o d’altro) c’impedisce di cogliere in pieno i tratti di corpi ed oggetti, un motivo ci deve pur essere. Forse vuoi ricordarci quanti ostacoli si frappongono alla nostra vista o, più precisamente, alla comprensione delle cose che la nostra vista percepisce: insomma, vuoi suggerirci che la realtà non è così facile da capire nelle sue apparenze volatili d’ogni giorno. E che chi – di fronte a questi elementi di schermo, di filtro, di velatura – cercherà la scorciatoia della superficialità o dell’irrazionale, pagherà dazio e non capirà nulla. Perché (De Gregori aveva torto) c’è ancora tanto da capire, purché si sappia guardare: ci sono oggetti da ritrovare sotto l’acqua che ce li nasconde, e magari li accartoccia ma sono ancora lì: e chissà che quella carta da gioco non sia la buona carta? E quella forchetta, perché non dovrebbe ancora infilzare un boccone buono, dare ancora sapore alla vita? D’altra parte – tra i veli, i fogli, le schermature – i corpi umani danzano liberi, anzi premono quelle superfici schermanti, sembrano gridarci un bisogno di verità naturale e lo fanno in un linguaggio non guastato dalle parole consumate che, quelle sì, mascherano, ottenebrano e falsificano. Mentre la natura risplende, eterna, nei colori cangianti e strani che la luce le fa assumere, e un finestrino rigato di pioggia non può negarci la salda resistenza d’un carrubo ibleo, noi uomini, invece, come ci poniamo di fronte al passato e al presente? Il bric-à-brac d’un rigattiere sembra confuso e lontano, dietro una cancellata: come il passato. Concentriamoci dunque sul presente, là dove i veli visibili sono fatti per essere squarciati: e se un braccio ci chiama, tra la nebbia o il fumo, sarà bene seguirne l’apertura, forse l’abbraccio. Quelli da temere, quelli da cui dobbiamo difenderci sono i veli invisibili, che avvolgono il nostro dire, il nostro non-pensare, il nostro agire, quando nemmeno ce n’accorgiamo. Pericolosi, non c’è dubbio. Ma una difesa c’è, Gino, e ce lo ricordano le tue fotografie: linee cartesiane che s’incrociano, costruzioni figlie d’una razionalità che ancora può guidare l’agire umano, non soltanto nelle architetture più mirabolanti ma anche nelle più umili strutture d’una serra. E se tutto ciò non bastasse, c’è ancora una risorsa, caro Gino: il ghiribizzo consapevole di due bambine, alle prese con le porte girevoli che sono un gioco da giocare seriamente, fra separazione ed incontro, e non una metafora della vita. Forse.

Giuseppe Traina – Dicembre 2016